reader's digest

Selection of readings to learn and relax

First issue of the "Reader's Digest". The magazine was founded in February 1922 by DeWitt Wallace and Lila Bell Wallace.

For many years, "Reader's Digest" was the best-selling consumer magazine in the United States.

Global editions of "Reader's Digest" reach an additional 40 million people in more than 70 countries, via 49 editions in 21 languages. The periodical has a global circulation of 10.5 million, making it the largest paid-circulation magazine in the world. 

credits: wikipedia













What the Texas-Freeze Fiasco Tells Us About The Future of the Grid

by Robert Hebner (2021)

Depending on your point of view, the Texas blackouts were caused by deregulation, green energy, or an isolated electrical grid.

In mid-February 2021, a wintry blast hit the state, leaving more than 4 million people without power, most of them in homes not designed to shelter against bitter cold. The prolonged icy temperatures triggered a public health emergency and killed several dozen people in the state, according to press accounts. So what actually happened, and why?

Read the full article: IEEE Spectrum


Deep Learning Can't Be Trusted, Brain Modeling Pioneer Says 

by Kathy Pretz (2021)

During the past 20 years, deep learning has come to dominate artificial intelligence research and applications through a series of useful commercial applications. But underneath the dazzle are some deep-rooted problems that threaten the technology’s ascension. Stephen Grossberg, a pioneer in modelling how brains become intelligent, argues that an entirely different approach is needed. He describes an alternative model for both biological and artificial intelligence based on cognitive and neural research, called Adaptive Resonance Theory (ART). 

Read the full article: IEEE Spectrum


Advancing science and technology innovation by crossing the art-science-design interface

by Don Ingber (2021)

What is at the interface of art, science, and design and how can we use those disciplines to advance technology development? Listen to Wyss Institute (Harvard) Founding Director Don Ingber's talk from the Kaust Circular Carbon Initiative's 2021 virtual Winter Enrichment Program to find out. 

Ingber discussed his path from a serendipitous experience in an undergraduate art class that led to his discovery of how living cells are constructed using “tensegrity” architecture to his more recent work on human Organ Chips – which offer the possibility of replacing animal testing and advancing personalized medicine. He also describes the burgeoning discipline of Biologically Inspired Engineering and the Wyss Institute mission of solving some of the world’s greatest challenges in medicine and the environment. The work he discussed breaks down boundaries between science, engineering, art, and design and demonstrates that there are no boundaries to creativity. 

picture credits: Wyss Institute Harvard


Why Does the World Harbor So Many Different Voltages, Plugs, and Sockets?

by Vaclav Smil (2021)

The variety of plugs and sockets is even more confusing, reflecting the enduring effect of early choices and of a multitude of originally separate systems. The International Electrotechnical Commission recognizes 15 different plug and socket types, with two combinations dominant. Standardization makes life easier, but it is often impossible to introduce it to systems that have a messy evolutionary history. Electricity supply is a case in point.

Read the full article: IEEE Spectrum


The Lasting Lesson of John Conway's Game of Life

by Siobhan Roberts (2020)

Fifty years on, the mathematician’s best known (and, to him, least favorite) creation confirms that “uncertainty is the only certainty.” 

picture credits: Stanford University Libraries

In March of 1970, Martin Gardner opened a letter jammed with ideas for his Mathematical Games column in Scientific American. Sent by John Horton Conway, then a mathematician at the University of Cambridge, the letter ran 12 pages, typed hunt-and-peck style.

Page 9 began with the heading “The game of life.” It described an elegant mathematical model of computation — a cellular automaton, a little machine, of sorts, with groups of cells that evolve from iteration to iteration, as a clock advances from one second to the next.

Dr. Conway, who died in April, having spent the latter part of his career at Princeton, sometimes called Life a “no-player, never-ending game.” Mr. Gardner called it a “fantastic solitaire pastime.”

The game was simple: Place any configuration of cells on a grid, then watch what transpires according to three rules that dictate how the system plays out.

Read the full article: The New York Times

Selezione di letture per imparare e rilassarsi

Il cubo e io

di Ernő Rubik (2020)

"Eppure, pochi sono abbastanza fortunati da coltivare la propria curiosità infantile fino all’età adulta. La ragione potrebbe essere che la motivazione intrinseca diminuisce in proporzione all’aumento della ricompensa esterna. Quando i bambini cominciano ad apprendere con il fine specifico di ottenere voti migliori a scuola anziché immergersi in domande aperte, capiscono rapidamente che sono i voti che contano, non l’apprendimento in sé.

Ricompense e punizioni esterne sono uno strumento straordinariamente efficace per cambiare l’atteggiamento e persino gli interessi delle persone. Di conseguenza, chi è in condizione di offrire tali incentivi porta su di sé anche un’enorme responsabilità."


Il datioma egoista

di Francesca Fantini (2021)

("The selfish dataome", Caleb Scharf).

Magari ne hai già sentito parlare: i geni sono l'aristocrazia permanente dell'evoluzione, si prendono cura di se stessi mentre i loro ospiti di carne vanno e vengono. Questa è la tesi di un libro che è stato battezzato come il manoscritto di scienza più influente di tutti i tempi: Il gene egoista di Richard Dawkins.

Ma noi esseri umani, in realtà, generiamo molte più informazioni utilizzabili di quelle codificate in tutto il nostro materiale genetico combinato, e ne portiamo gran parte nel futuro. I dati al di fuori del nostro sé biologico - chiamiamoli datioma, (in anteposizione al genoma, N.d.T.) - potrebbero rappresentare la più grande impalcatura che regge una vita complessa. Il datioma può fornire una firma universalmente riconoscibile della caratteristica sfuggente che chiamiamo intelligenza, e potrebbe perfino insegnarci una o due cose su noi stessi.

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La grande corsa al litio fra estrazione sostenibile e allarme per la CO2

di Sara Gandolfi (2021)

Il boom delle batterie al litio e il preannunciato sorpasso dei veicoli EV su quelli a diesel e benzina — entro il 2025 dovrebbero essere più economici — hanno scatenato la caccia all’“oro bianco” in tutti i deserti del pianeta. Le tecniche di estrazione per ricavare il carbonato di litio dalle acque salmastre sotto i deserti non sono però né semplici né a costo ecologico zero. Oltre ad essere molto invasive, perché necessitano grandi piscine evaporative in superficie, hanno un elevato impatto ambientale per i consumi di acqua e la produzione di rifiuti chimici tossici. E richiedono investimenti ingenti. 

leggi l'articolo completo: Corriere della Sera


La prima volta dell'ora legale (1916)

di Pasquale Tammaro (2021)

Francia, Regno Unito, gli Imperi Centrali e i Paesi scandinavi già da molto tempo avevano deciso di posticipare in estate le lancette dell’orologio per sfruttare a pieno la luce del sole. Nel 1916, con il continente straziato dalla guerra, il dibattito giunse anche in Italia. Dal Correre della Sera del 22 maggio 1916: “Il principio a cui si ispira la riforma è molto chiaro e molto semplice. Durante parecchi mesi dell’anno la maggior parte della gente comincia la sua giornata alcune ore dopo che il sole è sorto, e la termina alcune ore dopo che il sole è tramontato: si alza quando è giorno fatto da un pezzo e va a letto quando la sera è già inoltrata, così che si perdono nel sonno delle ore di luce naturale, e si consuma per altrettante ore la luce artificiale”. 

leggi l'articolo completo: Massime dal Passato


Il "Pregiudizio di sopravvivenza"

(2021)

Nel 1942 un gruppo di scienziati della Columbia University a New York avviò su richiesta del governo americano una serie di analisi e studi di supporto alle attività dell’esercito. Gli Stati Uniti erano entrati da pochi mesi in guerra, in seguito all’attacco a sorpresa subìto alla base navale di Pearl Harbor, e il lavoro di quel gruppo di scienziati – lo Statistical Research Group (SRG), formato perlopiù da matematici – sarebbe servito a migliorare il controllo statistico della qualità dell’industria militare e a perfezionare le strategie e le attrezzature.

Tra i membri del gruppo di ricerca c’era Abraham Wald, un quarantenne matematico ungherese di origini ebraiche, fuggito dall’Austria tre anni prima, durante l’occupazione nazista. Si racconta che Wald, interpellato dalla marina militare statunitense, individuò un errore logico – definito pregiudizio di sopravvivenza – in un ragionamento degli ingegneri che stavano studiando un modo per rendere meno vulnerabili gli aerei degli Alleati. Analizzando i fori di proiettile sulle fusoliere degli aerei rientrati dopo le missioni i militari pensarono in un primo momento di dover aggiungere protezioni nei punti più danneggiati. Wald la pensava diversamente: i punti non danneggiati erano proprio quelli da proteggere, perché indicavano che gli aerei colpiti in quei punti erano evidentemente stati abbattuti dalle forze avversarie e non avevano mai fatto ritorno alla base.

Per questo aneddoto, Wald – noto per i suoi studi sulla statistica – è un personaggio oggi citato spesso in relazione al pregiudizio di sopravvivenza, un errore che si presenta quando, nella valutazione di una situazione, ci si concentra soltanto sulle persone o sulle cose che hanno superato un determinato processo di selezione, e si trascurano tutti gli altri elementi per via della loro stessa invisibilità. È alla base di ragionamenti fallaci frequenti in analisi e discorsi inerenti a discipline e attività umane disparate, dalla finanza alle arti, e può portare a conclusioni estremamente fuorvianti.

Il difetto che Wald individuò nel ragionamento della Marina militare statunitense – secondo le ricostruzioni più accreditate e condivise di questa storia, e al netto di alcuni indubbi tratti leggendari – rappresenta ancora oggi una delle formulazioni più chiare di questo pregiudizio.

leggi l'articolo completo: Il Post


Disinformazione: una minaccia più grave della pandemia

di Francesca Fantini (2021)

Dal secolo scorso, ogni generazione in Italia (e in Europa) ha dovuto affrontare una grande minaccia. La spagnola, la Prima guerra mondiale, la Seconda guerra mondiale, la Guerra fredda… Oggi noi ne dobbiamo affrontare due: la pandemia e l’infodemia

Quest’ultimo termine, coniato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, indica la sovrabbondanza di informazioni - tra cui si insinuano quelle false o imprecise - su qualunque tema. 

L’infodemia rende più difficile trovare le fonti e gli orientamenti affidabili di cui abbiamo bisogno, è una vera e propria pandemia nella pandemia, che ha toccato l’apice proprio con il coronavirus. 

L’esempio è sotto il nostro naso: basta aprire un social network per essere invasi da decine di notizie sul Covid-19, di cui la maggior parte imprecise, frutto di una visione parziale della realtà e, a volte, dettate dalla paura. 

Sicuramente questo è un periodo di stress e di incertezze, è un periodo in cui abbiamo bisogno di ricevere informazioni chiare e precise e di poterci fidare delle fonti, e invece alcuni si approfittano di questo momento di vulnerabilità per confonderci ancora di più

Come è possibile approfondire alla sezione “fighting disinformation” del sito della Commissione Europea, la disinformazione nuoce alla nostra capacità di prendere decisioni valide, saturandoci con informazioni contrastanti e rendendoci insicuri. 

Le conseguenze possono essere gravi e arrivano addirittura a mettere a repentaglio la sicurezza delle persone, facendoci perdere fiducia nei governi e nei media. 

Ad esempio, gli analisti di EUvsDisinfo (un portale del Servizio europeo per l’azione esterna nato nel 2015, per rispondere meglio alle campagne di disinformazione della Federazione Russa) ritengono che alcuni soggetti stranieri, in particolare in Russia e Cina, abbiano attivamente diffuso informazioni false per seminare confusione e sfiducia a proposito della risposta dell'Europa al coronavirus. Queste operazioni mirate intendono influenzare l'opinione pubblica, nell'intento di compromettere il dibattito democratico ed esacerbare la polarizzazione sociale, migliorando al contempo l’immagine di tali Paesi nel contesto del coronavirus. 

Disinformazione in Italia: un terreno fertile 

Purtroppo, l’Italia ha un triste primato in classifica europea: secondo l’OCSE (l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) siamo fra i primi Paesi in tema di analfabetismo funzionale. Questo significa che molte persone (circa una su due, il 47% del campione analizzato), leggendo un testo, non sono in grado di comprendere, valutare e usare le informazioni che ricevono, non sono in grado di determinare l’attendibilità della fonte e non sono in grado di difendersi in caso di disinformazione. 

Secondo il report Skills Matter generato proprio dall’OCSE, «la competenza nelle capacità di elaborazione delle informazioni è positivamente associata a molti aspetti del benessere individuale, in particolare la salute, le convinzioni sul proprio impatto sul processo politico, la fiducia negli altri e la partecipazione ad attività di volontariato». Non solo: gli adulti con una maggiore competenza in queste abilità tendono ad avere risultati migliori nel mercato del lavoro. 

Un altro dato: in Italia ci sono circa 13 milioni di persone che ogni anno si rivolgono a maghi, fattucchieri o cartomanti, facendosi manipolare da persone senza scrupoli che sfruttano la loro fragilità e insicurezza. 

Perché accade tutto questo? 

Perché è più facile credere alle soluzioni semplici. 

Oggi, il principio guida di ogni cosa è la complessità. Come racconta il fisiologo Alain Berthoz in La semplessità, «qualunque cosa è complessa. L’economia è complessa, la vita nelle megalopoli è complessa, i meccanismi del morbo di Alzheimer sono complessi. Trovare un biocarburante efficace per sostituire il petrolio è complesso, gestire le famiglie separate e permettere contemporaneamente uno sviluppo armonioso dei bambini e la libertà sessuale dei genitori è complesso. Siamo schiacciati dalla complessità. Inoltre apparteniamo a diversi corpi sociali, religiosi e politici, e viviamo divisi tra numerose identità: siamo cittadini del nostro Paese ma anche dell’Europa, abitanti di un quartiere, medici o muratori, turisti, pazienti, clienti ed elettori. Ciascuna di queste identità ci inquadra, ci impone una serie di comportamenti, norme, abitudini e habitus che ci collocano all’interno di un intreccio di ragnatele sociali e psicologiche in costante mutamento, caratterizzate da una complessità che non ha eguali nella storia dell’uomo. La complessità investe ogni ambito, senza eccezioni. Di fronte alle sfide della complessità assistiamo a una proliferazione di metodi per semplificare. Tali metodi, destinati a evitare la follia collettiva e individuale dovuta all’impossibilità, per il nostro cervello, di elaborare l’immensa quantità d’informazioni necessaria per vivere, agire e comprendere, sbandierano un’apparente semplicità, espressa attraverso teorie astruse, che mascherano l’incapacità dei loro autori di cogliere il reale. […] Può quindi capitare che l’uomo, perso nella complessità reale del mondo e consapevole dell’inconsistenza di tali modelli formali, si riavvicini a credenze antiche e si volga all’oscurantismo». 

Ecco quindi che credere ai maghi, alle teorie complottiste, alle dietrologie, risponde alla nostra esigenza di semplicità laddove lo scenario si fa complesso e non abbiamo armi sufficienti per comprenderlo. 

L’avvento del web ha provocato cinque cambiamenti, come racconta bene Annamaria Testa in un articolo sulla disinformazione:

1. Il processo di diffusione della disinformazione è accelerato fino a diventare istantaneo e pervasivo.

2. I destinatari potenziali della disinformazione si moltiplicano esponenzialmente, fino a coincidere con l’universo delle persone in rete (e, se si tratta di immagini, anche la barriera linguistica cade). Su questo tema segnalo un’altra notizia che fa molto riflettere: come i meme siano uno dei più grandi veicoli di disinformazione.

3. Si moltiplicano esponenzialmente anche le fonti possibili, nel senso che qualsiasi signor Nessuno, senza alcuna speciale abilità e senza dover essere un tiranno o un capo totalitario, può produrre efficace disinformazione, a costo zero.

4. La soglia per catturare l’attenzione in rete si riduce (stiamo parlando di 8 secondi).

5. Simmetricamente, la velocità di fruizione cresce. Tutto ciò diminuisce sia l’impatto potenziale dell’informazione affidabile, che di solito è meno urlata, sia la nostra attitudine a valutare e approfondire.

Se anche il web diventa complice nel fornirci una mole crescente di informazioni imprecise o sbagliate, che veicolano emozioni inappropriate, saremo più inclini a prendere decisioni sbagliate e inappropriate. 

Un triste esempio è ancora legato al Covid-19 e ai vaccini. Secondo uno studio pubblicato su Nature (una delle riviste più affidabili dell’informazione scientifica) l'esposizione alla disinformazione online ha reso le persone meno disposte a fare il vaccino. Sono state ampiamente diffuse numerose informazioni false sulla pandemia sulle piattaforme social: le reti 5G sono collegate al virus; i partecipanti alla sperimentazione di alcuni vaccini sono morti dopo aver assunto la dose; il virus è un’arma biologica e così via. La logica di tali fake news è evidente: si basano su paure preesistenti, seminano dubbi e cinismo sui vaccini, minacciando di limitarne l’assunzione. 

Perché? Sempre per la nostra esigenza di semplicità. Non riusciamo a percepire la complessità della realtà. Restiamo sui vaccini: l’Ema (agenzia europea per il farmaco) ha sottolineato che su cinque milioni di persone vaccinate in Europa con AstraZeneca sono stati rilevati trenta casi di “eventi tromboembolici”. Il nostro bisogno di semplicità ci fa pensare che il vaccino abbia causato l’evento tromboembolico. Tuttavia, non sappiamo se le due entità sono correlate, perché i resoconti spontanei di sospette reazioni avverse ai vaccini non permettono di distinguere tra una coincidenza e un effetto causale. Cioè, non ci sono evidenze scientifiche che dimostrino che è il vaccino ad aver causato l’evento tromboembolico. Alcuni lotti del vaccino sono stati ritirati, in via precauzionale, per effettuare dei controlli in modo da eliminare ogni possibile sospetto. 

La realtà è più complessa di quello che vorremmo, ma il nostro bisogno di semplicità non deve impedirci di comprenderla. 

Sono così tante le fake news dannose per la nostra incolumità che il Ministero della Salute ha dovuto istituire un portale per combattere la disinformazione, nel quale è spiegato perché, ad esempio, assumere tanta vitamina C non previene il contagio, oppure lavarsi le parti del corpo con la candeggina è molto pericoloso, oltre che totalmente inefficace per il virus. Eppure molte persone si sono fidate e hanno avuto problemi di salute anche gravi per aver creduto a queste fake news. 

Questo ci riporta al punto iniziale: le conseguenze della disinformazione possono essere pesanti e arrivano addirittura a mettere a repentaglio la sicurezza delle persone. 

E quindi, come possiamo difenderci dalle bufale? 

Se questa risposta fosse semplice, la piaga dell’infodemia non esisterebbe. 

Non c’è una soluzione definitiva, ma ci sono delle buone pratiche da seguire

Sempre per citare Annamaria Testa, scegliendo bene le fonti dalle quali farci influenzare. Perché siamo influenzabili, volenti o nolenti. E «prima ancora di sentirci responsabili di prendere le decisioni giuste dovremmo sentirci responsabili di dotarci delle informazioni giuste: il più possibile fondate, certe, verificabili, affidabili. In altre parole, dovremmo scegliere da che cosa lasciarci influenzare». 

L’arma più potente che abbiamo è scegliere bene le fonti da cui attingere informazioni. Quelle storiche, con la migliore reputazione, che spendono tempo ed energie per raccogliere informazioni che ripropongono senza fini di lucro (cioè non vogliono venderci prodotti o consulenze a sostegno delle proprie tesi), magari internazionali e non legate a un singolo Paese. Sono fonti distanti, è vero.

Probabilmente non sentiamo l’OMS una voce amica come l’omeopata del nostro quartiere, ma impegnandoci riusciremo a percepirne le dovute, insindacabili differenze. 

La disinformazione è una minaccia anche per le aziende, che alla fine sono fatte di persone. Molte imprese, per favorire l’empowerment dei propri collaboratori, chiedono loro di partecipare a corsi di digital literacy: la capacità di utilizzare internet e le tecnologie dell’informazione per accedere, gestire, integrare e valutare le informazioni a partire da una vasta gamma di fonti accessibili tramite svariati dispositivi tecnologici. 

La digital literacy rappresenta la competenza di base per diventare “buoni cittadini del web”, in quanto richiede l’affinamento del pensiero critico rispetto alla molteplicità di fonti disponibili che si trovano online. 

Insomma, un percorso per poter essere meno fragili e indifesi nei confronti dell’infodemia. Una minaccia che, se non affrontiamo, avrà vita più lunga di quella del coronavirus.


L'eresia catara

di Luigi Pirandello (1905)

Bernardino Lamis, professore ordinario di storia delle religioni, socchiudendo gli occhi addogliati e, come soleva nelle piú gravi occasioni, prendendosi il capo inteschiato tra le gracili mani tremolanti che pareva avessero in punta, invece delle unghie, cinque rosee conchigliette lucenti, annunziò ai due soli alunni che seguivano con pertinace fedeltà il suo corso:

- Diremo, o signori, nella ventura lezione, dell'eresia catara.

picture credits: ogresvillage

Uno de' due studenti, il Ciotta -  bruno ciociaretto di Guarcino, tozzo e solido -  digrignò i denti con fiera gioja e si diede una violenta fregatina alle mani. L'altro, il pallido Vannícoli, dai biondi capelli irti come fili di stoppia e dall'aria spirante, appuntí invece le labbra, rese piú dolente che mai lo sguardo dei chiari occhi languidi e stette col naso come in punto a annusar qualche odore sgradevole, per significare che era compreso della pena che al venerato maestro doveva certo costare la trattazione di quel tema, dopo quanto glien'aveva detto privatamente. (Perché il Vannícoli credeva che il professor Lamis quand'egli e il Ciotta, finita la lezione, lo accompagnavano per un lungo tratto di via verso casa, si rivolgesse unicamente a lui, solo capace d'intenderlo.)


E difatti il Vannícoli sapeva che da circa sei mesi era uscita in Germania (Halle a. S.) una mastodontica monografia di Hans von Grobler su l'Eresia Catara, messa dalla critica ai sette cieli, e che su lo stesso argomento, tre anni prima, Bernardino Lamis aveva scritto due poderosi volumi, di cui il von Grobler mostrava di non aver tenuto conto, se non solo una volta, e di passata, citando que' due volumi, in una breve nota; per dirne male.

Bernardino Lamis n'era rimasto ferito proprio nel cuore; e piú s'era addolorato e indignato della critica italiana che, elogiando anch'essa a occhi chiusi il libro tedesco, non aveva minimamente ricordato i due volumi anteriori di lui, né speso una parola per rilevare l'indegno trattamento usato dallo scrittore tedesco a uno scrittor paesano. Piú di due mesi aveva aspettato che qualcuno, almeno tra i suoi antichi scolari, si fosse mosso a difenderlo; poi, tuttoché -  secondo il suo modo di vedere -  non gli fosse parso ben fatto, s'era difeso da sé, notando in una lunga e minuziosa rassegna, condita di fine ironia, tutti gli errori piú o meno grossolani in cui il von Grobler era caduto, tutte le parti che costui s'era appropriate della sua opera senza farne menzione, e aveva infine raffermato con nuovi e inoppugnabili argomenti le proprie opinioni contro quelle discordanti dello storico tedesco.


Questa sua difesa, però, per la troppa lunghezza e per lo scarso interesse che avrebbe potuto destare nella maggioranza dei lettori, era stata rifiutata da due riviste; una terza se la teneva da piú d'un mese, e chi sa quanto tempo ancora se la sarebbe tenuta, a giudicare dalla risposta punto garbata che il Lamis, a una sua sollecitazione, aveva ricevuto dal direttore.

Sicché dunque davvero Bernardino Lamis aveva ragione, uscito dall'Università, di sfogarsi quel giorno amaramente coi due suoi fedeli giovani che lo accompagnavano al solito verso casa. E parlava loro della spudorata ciarlataneria che dal campo della politica era passata a sgambettare in quello della letteratura, prima, e ora, purtroppo, anche nei sacri e inviolabili dominii della scienza; parlava della servilità vigliacca radicata profondamente nell'indole del popolo italiano, per cui è gemma preziosa qualunque cosa venga d'oltralpe o d'oltremare e pietra falsa e vile tutto ciò che si produce da noi; accennava infine agli argomenti piú forti contro il suo avversario, da svolgere nella ventura lezione. E il Ciotta, pregustando il piacere che gli sarebbe venuto dall'estro ironico e bilioso del professore, tornava a fregarsi le mani, mentre il Vannícoli, afflitto, sospirava.


A un certo punto il professor Lamis tacque e prese un'aria astratta: segno, questo, per i due scolari, che il professore voleva esser lasciato solo.

Ogni volta, dopo la lezione, si faceva una giratina per sollievo giú per la piazza del Pantheon, poi su per quella della Minerva, attraversava Via dei Cestari e sboccava sul Corso Vittorio Emanuele. Giunto in prossimità di Piazza San Pantaleo, prendeva quell'aria astratta, perché solito -  prima di imboccare la Via del Governo Vecchio, ove abitava -  d'entrare (furtivamente, secondo la sua intenzione) in una pasticceria, donde poco dopo usciva con un cartoccio in mano. I due scolari sapevano che il professor Lamis non aveva da fare neppur le spese a un grillo, e non si potevano perciò capacitare della compera di quel cartoccio misterioso, tre volte la settimana.


Spinto dalla curiosità, il Ciotta era finanche entrato un giorno nella pasticceria a domandare che cosa il professore vi comperasse.

- Amaretti, schiumette e bocche di dama.

E per chi serviranno?

Il Vannícoli diceva per i nipotini. Ma il Ciotta avrebbe messo le mani sul fuoco che servivano proprio per lui, per il professore stesso; perché una volta lo aveva sorpreso per via nel mentre che si cacciava una mano in tasca per trarne fuori una di quelle schiumette e doveva già averne un'altra in bocca, di sicuro, la quale gli aveva impedito di rispondere a voce al saluto che lui gli aveva rivolto.

- Ebbene, e se mai, che c'è di male? Debolezze! - gli aveva detto, seccato, il Vannícoli, mentre da lontano seguiva con lo sguardo languido il vecchio professore, il quale se ne andava pian piano, molle molle, strusciando le scarpe.


Non solamente questo peccatuccio di gola, ma tante e tant'altre cose potevano essere perdonate a quell'uomo che, per la scienza, s'era ridotto con quelle spalle aggobbate che pareva gli volessero scivolare e fossero tenute su, penosamente, dal collo lungo, proteso come sotto un giogo. Tra il cappello e la nuca la calvizie del professor Lamis si scopriva come una mezza luna cuojacea; gli tremolava su la nuca una rada zazzeretta argentea, che gli accavallava di qua e di là gli orecchi e seguitava barba davanti -  su le gote e sotto il mento -  a collana.

Né il Ciotta né il Vannícoli avrebbero mai supposto che in quel cartoccio Bernardino Lamis si portava a casa tutto il suo pasto giornaliero.


Due anni addietro, gli era piombata addosso da Napoli la famiglia d'un suo fratello, morto colà improvvisamente: la cognata, furia d'inferno, con sette figliuoli, il maggiore dei quali aveva appena undici anni. Notare che il professor Lamis non aveva voluto prender moglie per non esser distratto in alcun modo dagli studii. Quando, senz'alcun preavviso, s'era veduto innanzi quell'esercito strillante, accampato sul pianerottolo della scala, davanti la porta, a cavallo d'innumerevoli fagotti e fagottini, era rimasto allibito. Non potendo per la scala, aveva pensato per un momento di scappare buttandosi dalla finestra. Le quattro stanzette della sua modesta dimora erano state invase; la scoperta d'un giardinetto, unica e dolce cura dello zio, aveva suscitato un tripudio frenetico nei sette orfani sconsolati, come li chiamava la grassa cognata napoletana. Un mese dopo, non c'era piú un filo d'erba in quel giardinetto. Il professor Lamis era diventato l'ombra di se stesso: s'aggirava per lo studio come uno che non stia piú in cervello, tenendosi pur nondimeno la testa tra le mani quasi per non farsela portar via anche materialmente da quegli strilli, da quei pianti, da quel pandemonio imperversante dalla mattina alla sera. Ed era durato un anno, per lui, questo supplizio, e chi sa quant'altro tempo ancora sarebbe durato, se un giorno non si fosse accorto che la cognata, non contenta dello stipendio che a ogni ventisette del mese egli le consegnava intero, ajutava dal giardinetto il maggiore dei figliuoli a inerpicarsi fino alla finestra dello studio, chiuso prudentemente a chiave, per fargli rubare i libri:

- Belli grossi, neh, Gennarie', belli grossi e nuovi!

Mezza la sua biblioteca era andata a finire per pochi soldi sui muricciuoli.


Indignato, su le furie, quel giorno stesso, Bernardino Lamis con sei ceste di libri superstiti e tre rustiche scansie, un gran crocefisso di cartone, una cassa di biancheria, tre seggiole, un ampio seggiolone di cuojo, la scrivania alta e un lavamano, se n'era andato ad abitare -  solo -  in quelle due stanzette di via Governo Vecchio, dopo aver imposto alla cognata di non farsi vedere mai piú da lui.

Le mandava ora per mezzo d'un bidello dell'Università, puntualmente ogni mese, lo stipendio, di cui tratteneva soltanto lo stretto necessario per sé.

Non aveva voluto prendere neanche una serva a mezzo servizio, temendo che si mettesse d'accordo con la cognata. Del resto, non ne aveva bisogno. Non s'era portato nemmeno il letto, dormiva con uno scialletto su le spalle, avvoltolato in una coperta di lana, entro il seggiolone. Non cucinava. Seguace a modo suo della teoria del Fletcher, si nutriva con poco, masticando molto. Votava quel famoso cartoccio nelle due ampie tasche dei calzoni, metà qua, metà là, e mentre studiava o scriveva, in piedi com'era solito, mangiucchiava o un amaretto o una schiumetta o una bocca di dama. Se aveva sete, acqua. Dopo un anno di quell'inferno, si sentiva ora in paradiso.

Ma era venuto il von Grobler con quel suo libraccio su l'Eresia Catara a guastargli le feste.

 

Quel giorno, appena rincasato, Bernardino Lamis si rimise al lavoro, febbrilmente.

Aveva innanzi a sé due giorni per finir di stendere quella lezione che gli stava tanto a cuore. Voleva che fosse formidabile. Ogni parola doveva essere una frecciata per quel tedescaccio von Grobler.

Le sue lezioni egli soleva scriverle dalla prima parola fino all'ultima, in fogli di carta protocollo, di minutissimo carattere. Poi, all'Università, le leggeva con voce lenta e grave, reclinando indietro il capo, increspando la fronte e stendendo le pàlpebre per potere vedere attraverso le lenti insellate su la punta del naso, dalle cui narici uscivano due cespuglietti di ispidi peli grigi liberamente cresciuti. I due fidi scolari avevano tutto il tempo di scrivere quasi sotto dettatura. Il Lamis non montava mai in cattedra: sedeva umilmente davanti al tavolino sotto. I banchi, nell'aula, erano disposti in quattro ordini, ad anfiteatro. L'aula era buja, e il Ciotta e il Vannícoli all'ultimo ordine, uno di qua, l'altro di là, ai due estremi, per aver luce dai due occhi ferrati che si aprivano in alto. Il professore non li vedeva mai durante la lezione: udiva soltanto il raspío delle loro penne frettolose.


Là, in quell'aula, poiché nessuno s'era levato in sua difesa, lui si sarebbe vendicato della villania di quel tedescaccio, dettando una lezione memorabile.

Avrebbe prima esposto con succinta chiarezza l'origine, la ragione, l'essenza, l'importanza storica e le conseguenze dell'eresia catara, riassumendole dai suoi due volumi; si sarebbe poi lanciato nella parte polemica, avvalendosi dello studio critico che aveva già fatto sul libro del von Grobler. Padrone com'era della materia, e col lavoro già pronto, sotto mano, a una sola fatica sarebbe andato incontro: a quella di tenere a freno la penna. Con l'estro della bile, avrebbe scritto in due giorni, su quell'argomento, due altri volumi piú poderosi dei primi.

Doveva invece restringersi a una piana lettura di poco piú di un'ora: riempire cioè di quella sua minuta scrittura non piú di cinque o sei facciate di carta protocollo. Due le aveva già scritte. Le tre o quattro altre facciate dovevano servire per la parte polemica.

Prima d'accingervisi, volle rileggere la bozza del suo studio critico sul libro del von Grobler. La trasse fuori dal cassetto della scrivania, vi soffiò su per cacciar via la polvere, con le lenti già su la punta del naso, e andò a stendersi lungo lungo sul seggiolone.


A mano a mano, leggendo, se ne compiacque tanto, che per miracolo non si trovò ritto in piedi su quel seggiolone; e tutte, una dopo l'altra, in men d'un'ora, s'era mangiato inavvertitamente le schiumette che dovevano servirgli per due giorni. Mortificato, trasse fuori la tasca vuota, per scuoterne la sfarinatura.

Si mise senz'altro a scrivere, con l'intenzione di riassumere per sommi capi quello studio critico. A poco a poco però, scrivendo, si lasciò vincere dalla tentazione d'incorporarlo tutto quanto di filo nella lezione, parendogli che nulla vi fosse di superfluo, né un punto né una virgola. Come rinunziare, infatti, a certe espressioni d'una arguzia cosí spontanea e di tanta efficacia? a certi argomenti cosí calzanti e decisivi? E altri e altri ancora gliene venivano, scrivendo, piú lucidi, piú convincenti, a cui non era del pari possibile rinunziare.


Quando fu alla mattina del terzo giorno, che doveva dettar la lezione, Bernardino Lamis si trovò davanti, sulla scrivania ben quindici facciate fitte fitte, invece di sei.

Si smarrí.

Scrupolosissimo nel suo officio, soleva ogni anno, in principio, dettare il sommario di tutta la materia d'insegnamento che avrebbe svolto durante il corso, e a questo sommario si atteneva rigorosissimamente. Già aveva fatto, per quella malaugurata pubblicazione del libro del von Grobler, una prima concessione all'amor proprio offeso, entrando quell'anno a parlare quasi senza opportunità dell'eresia catara. Piú d'una lezione, dunque, non avrebbe potuto spenderci. Non voleva a nessun costo che si dicesse che per bizza o per sfogo il professor Lamis parlava fuor di proposito o piú del necessario su un argomento che non rientrava se non di lontano nella materia dell'annata.

Bisognava dunque, assolutamente, nelle poche ore che gli restavano, ridurre a otto, a nove facciate al massimo, le quindici che aveva scritte.


Questa riduzione gli costò un cosí intenso sforzo intellettuale, che non avvertí nemmeno alla grandine, ai lampi, ai tuoni d'un violentissimo uragano che s'era improvvisamente rovesciato su Roma. Quando fu su la soglia del portoncino di casa, col suo lungo rotoletto di carta sotto il braccio, pioveva a diluvio. Come fare? Mancavano appena dieci minuti all'ora fissata per la lezione. Rifece le scale, per munirsi d'ombrello, e si avviò sotto quell'acqua, riparando alla meglio il rotoletto di carta, la sua "formidabile" lezione.

Giunse all'Università in uno stato compassionevole: zuppo da capo a piedi. Lasciò l'ombrello nella bacheca del portinajo; si scosse un po' la pioggia di dosso, pestando i piedi; s'asciugò la faccia e salí al loggiato.

L'aula - buja anche nei giorni sereni - pareva con quel tempo infernale una catacomba; ci si vedeva a mala pena. Non di meno, entrando, il professor Lamis, che non soleva mai alzare il capo, ebbe la consolazione d'intravedere in essa, cosí di sfuggita, un insolito affollamento, e ne lodò in cuor suo i due fidi scolari che evidentemente avevano sparso tra i compagni la voce del particolare impegno con cui il loro vecchio professore avrebbe svolto quella lezione che tanta e tanta fatica gli era costata e dove tanto tesoro di cognizioni era con sommo sforzo racchiuso e tanta arguzia imprigionata.


In preda a una viva emozione, posò il cappello e montò, quel giorno, insolitamente, in cattedra. Le gracili mani gli tremolavano talmente, che stentò non poco a inforcarsi le lenti sulla punta del naso. Nell'aula il silenzio era perfetto. E il professor Lamis, svolto il rotolo di carta, prese a leggere con voce alta e vibrante, di cui egli stesso restò meravigliato. A quali note sarebbe salito, allorché, finita la parte espositiva per cui non era acconcio quel tono di voce, si sarebbe lanciato nella polemica? Ma in quel momento il professor Lamis non era piú padrone di sé. Quasi morso dalle vipere del suo stile, sentiva di tratto in tratto le reni fènderglisi per lunghi brividi e alzava di punto in punto la voce e gestiva, gestiva. Il professor Bernardino Lamis, cosí rigido sempre, cosí contegnoso, quel giorno, gestiva! Troppa bile aveva accumulato in sei mesi, troppa indignazione gli avevano cagionato la servilità, il silenzio della critica italiana; e questo ora, ecco, era per lui il momento della rivincita! Tutti quei bravi giovani, che stavano ad ascoltarlo religiosamente, avrebbero parlato di questa sua lezione, avrebbero detto che egli era salito in cattedra quel giorno perché con maggior solennità partisse dall'Ateneo di Roma la sua sdegnosa risposta non al von Grobler soltanto, ma a tutta quanta la Germania.


Leggeva cosí da circa tre quarti d'ora, sempre piú acceso e vibrante, allorché lo studente Ciotta, che nel venire all'Università era stato sorpreso da un piú forte rovescio d'acqua e s'era riparato in un portone, s'affacciò quasi impaurito all'uscio dell'aula. Essendo in ritardo, aveva sperato che il professor Lamis con quel tempo da lupi non sarebbe venuto a far lezione. Giú, poi, nella bacheca del portinajo, aveva trovato un bigliettino del Vannícoli che lo pregava di scusarlo presso l'amato professore perché "essendogli la sera avanti smucciato un piede nell'uscir di casa, aveva ruzzolato la scala, s'era slogato un braccio e non poteva perciò, con suo sommo dolore, assistere alla lezione".


A chi parlava, dunque, con tanto fervore il professor Bernardino Lamis?

Zitto zitto, in punta di piedi, il Ciotta varcò la soglia dell'aula e volse in giro lo sguardo. Con gli occhi un po' abbagliati dalla luce di fuori, per quanto scarsa, intravide anche nell'aula numerosi studenti, e ne rimase stupito. Possibile? Si sforzò a guardar meglio.

Una ventina di soprabiti impermeabili, stesi qua e là a sgocciolare nella buja aula deserta, formavano quel giorno tutto l'uditorio del professor Bernardino Lamis.

Il Ciotta li guardò, sbigottito, sentí gelarsi il sangue, vedendo il professore leggere cosí infervorato a quei soprabiti la sua lezione, e si ritrasse quasi con paura.

Intanto, terminata l'ora, dall'aula vicina usciva rumorosamente una frotta di studenti di legge, ch'erano forse i proprietarii di quei soprabiti.


Subito il Ciotta, che non poteva ancora riprender fiato dall'emozione, stese le braccia e si piantò davanti all'uscio per impedire il passo.

- Per carità, non entrate! C'è dentro il professor Lamis.

- E che fa? - domandarono quelli, meravigliati dell'aria stravolta del Ciotta.

Questi si pose un dito sulla bocca, poi disse piano, con gli occhi sbarrati:

- Parla solo!

Scoppiò una clamorosa irrefrenabile risata.

Il Ciotta chiuse lesto lesto l'uscio dell'aula, scongiurando di nuovo:

- Zitti, per carità, zitti! Non gli date questa mortificazione, povero vecchio! Sta parlando dell'eresia catara!

Ma gli studenti, promettendo di far silenzio, vollero che l'uscio fosse riaperto, pian piano, per godersi dalla soglia lo spettacolo di quei loro poveri soprabiti che ascoltavano immobili, sgocciolanti neri nell'ombra, la formidabile lezione del professor Bernardino Lamis.

- ... ma il manicheismo, o signori, il manicheismo, in fondo, che cosa è? Ditelo voi! Ora, se i primi Albigesi, a detta del nostro illustre storico tedesco, signor Hans von Grobler...